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Mia zia, Munari e lo UX design

Qualcuno, vedendo le mie letture degli ultimi mesi pubblicate su Instagram, mi ha chiesto se voglio diventare una UX designer. Io ho risposto che non sto passando a nulla ma che sto ampliando le mie conoscenze. È vero che in questo mondo del design è tutto molto in evoluzione,  che siamo dentro un cambiamento fortissimo della disciplina e le definizioni stanno servendo a strutturare ruoli e conoscenze, soprattutto per quel che riguarda la progettazione di prodotti digitali. Ma sempre di design si parla, e design significa progetto e progetto significa metodo.


Quando ero piccola pensavo che l’arte fosse solo questione di talento innato; vedevo mia madre disegnare, mia zia dipingere e credevo fosse magia…come se un filo magico collegasse mano e cervello per dare forma a tutto quello che le persone immaginavano. Quando da ragazzina guardavo per ore i documentari in tv sull’arte e il design, pensavo che quella bellezza fosse frutto di un impulso istintivo di geni travolti da vite e passioni incredibili. E speravo che prima o poi anche io avrei scoperto la formula magica per vivere in quel modo. Quando cresci in un piccolo paese di quattromila abitanti di un’isola come la Sicilia, pensi sempre che dietro quelle colline, oltre quel mare ci sia sempre altro da scoprire; guardando sempre l’orizzonte blu fatto di acqua e cielo, sviluppi un’immensa voglia di andare, da esploratore, da navigante, da isolano, che per sempre ti resta nelle ossa. Sai sempre che la tua Itaca è lì ma devi guardare oltre, sai che puoi sempre tornare ma devi andare e questo spirito di ricerca, di cammino non va mai via. Forse è questo sentimento di guardare altrove, di scavare sotto la superficie che mi ha fatto scoprire il design.

Penso di avere capito che sarebbe stata la mia scelta proprio quando ho scoperto che dietro quelle forme, quei materiali, quei colori c’era ben altro.
Ricordo ancora il giorno che il mio professore di progettazione all’Istituto d’Arte prima di iniziare a disegnare, ci portò in biblioteca. Ci fece capire che prima di tutto dovevamo guardare, conoscere cosa succedeva nel mondo, guardare al passato, conoscere il contemporaneo. Poi proprio in quegli anni, la zia pittrice, sì sempre lei, ti regala un libro di Bruno Munari e ti spiega che è un designer e tu non ne hai mai sentito parlare. Devo molto agli anni dell’adolescenza in cui incosciamente la mia ricerca di una direzione, di un modo di stare al mondo mi ha portato alla scelta del mio lavoro.


Comunque quel libro che ricevetti si chiama “Da cosa nasce cosa” e molti di voi lo avranno letto e sicuramente riletto. Certi libri bisogna tenerli lì, ad accompagnarti perchè non smettono mai di insegnarti. 

“Creatività non vuol dire improvvisazione senza metodo: in questo modo si fa solo confusione e si illudono i giovani a sentirsi artisti liberi e indipendenti. La serie di operazioni del metodo progettuale è fatta di valori oggettivi che diventano strumenti operativi nelle mani di progettisti creativi. […] Il metodo progettuale per il designer non è qualcosa di assoluto e di definitivo; è qualcosa di modificabile se si trovano altri valori oggettivi che migliorino il processo. E questo fatto è legato alla creatività del progettista che, nell’applicare il metodo, può scoprire qualcosa per migliorarlo. Quindi le regole non bloccano la personalità del progettista ma, anzi lo stimolano a scoprire qualcosa che, eventualmente, potrà essere utile anche agli altri.”

Poi è arrivata l’Università e ho conosciuto Ettore Sottsass. E lui a quel metodo ha aggiunto la poesia della bellezza. Ho capito che questo metodo aveva il potere di comprendere i bisogni delle persone, per offrire loro delle soluzioni sotto forma di metafore. Che siamo uomini e non solo estetica, e non solo azioni ma c’è molto altro e ogni buon progettista deve ricordarlo sempre. Dobbiamo progettare per il mondo di oggi, guardando al presente perchè è lì che l’uomo vive e si esprime. Che siamo tutti alla ricerca di qualcosa che sia sotto la superficie e che il gesto delle azioni più semplici che ci rende uomini. Perchè non siamo solo merce, immagine e massa. Siamo persone. E “una delle cose più complicate per un serio designer è capire chi sono quelli che useranno il tuo prodotto”.

Dagli anni dell’Università sono passati poco più di 10 anni! Un decennio è un tempo immenso per una persona, si cresce, si cambia, si esplorano strade nuove ma come un Vangelo, tutti questi principi mi sono rimasti addosso. Spesso sono cambiati gli oggetti del mio progetto ma il percorso è stato sempre quello e intanto i metodi di progettazione sono diventati degli standard super codificati e con visioni precise e risultati efficaci. Non è il luogo per parlarne nè sono io la persona che ne deve scrivere, per quello non mancano librerie da cui attingere per studiare e imparare e tutto dipende moltissimo dal contesto in cui si lavora. Per tutti i designer che mi leggono, forse sembrerà banale parlare di metodo, proprio oggi che la user experience design è una disciplina consolidata “fatta di metodo” in cui le persone e i loro bisogni, sono al 
centro di tutto.
Ma appunto per questo che mi interessa, perchè secondo me questa disciplina non è un ambito del design ma è il design.
È quello che ogni buon progettista farebbe, aldilà dell’oggetto della progettazione. Leggetevi questo travolgente libro di Matteo di Pascale “Manuale di sopravvivenza per UX designer” per saperne di più. E quindi mi sembra solo che tutte questi elementi siano stati finalmente codificati e resi noti in qualche modo. Ed è stupendo perchè all’inizio della mia esperienza da designer sembrava quasi che essere designer fosse qualcosa da validare, che fosse necessario collocarsi, spiegare che non eri nè un architetto, nè un artsita, nè un ingegnere ma non per questo il tuo fosse un ruolo minore, solo diverso o meglio forse era solo diverso l’oggetto.


Oggi essere designer va di moda, qualsiasi attività porta la firma di un designer di qualcosa. Non è una polemica, però certe volte mi sembra tutto travolto da immense sovrastrutture, quando invece parliamo tutti della stessa cosa! Quindi io continuo con passione a studiare, a cercare di strutturare il mio metodo, di cogliere l’andamento del mio tempo e di farlo mio in qualche modo.

Ho provato, con non poca fatica a sintetizzare questo metodo che come un mantra ripeto lavoro dopo lavoro. E anche quando le sfide sono più complesse, sono sempre certa che “affidandomi al metodo” allora prima o poi troverò le risposte che cerco.
Potete leggerlo qui!

La sfida più grande oggi per me è condividere con i clienti questo metodo e lavorarci insieme perchè non è restando in silenzio nel mio studio che si arriva alle soluzioni; perchè le regole del gioco sono importanti da seguire e alcune volte è bello anche stravolgerle ma non c’è gusto a giocare da soli.






da sinistra: mia mamma Mary Rose e mia zia Mary; Design Interview Ettore Sottsass, Museo Alessi, Edizioni Corraini 2007